Cosa vedere a Peschici

Cenni storici…
E’ molto probabile che Peschici sia di origine Slava, perchè le origini risalgono al popolo degli Schiavoni, chiamati dall’Imperatore Ottone I per liberare il Gargano dai Saraceni.
 
Secondo lo storico Pompeo Sarnelli, infatti, le origini di Peschici risalgono all’anno 970 d. C. quando“Sueripolo, Capitano degli Slavi, con il suo esercito discacciò i Saraceni dal Monte Gargano. I vittoriosi Slavi furono pagati dall’Imperatore, facendoli abitare nel campo di S. Vito in Gargano, diviso in due  Colonie, Vico e Peschici”.
 
Il nome Peschici compare per  la prima volta nel 1053, in un documento, il Cartolario tremitese, dove  si parla del Castello Pesclizzo, mentre in uno del 1175, il centro  compare come Peschizi.
 
Passeggiando…
Caratteristico centro turistico della costa settentrionale del Gargano, Peschici sorge su un promontorio roccioso con alte pareti a strapiombo verso il mare e con un declivio più dolce verso ovest da dove domina la costa da Rodi Garganico a Vieste e, verso l’orizzonte si  scorgono le Isole Tremiti e di Pelagosa.
 
Peschici, con le sue case bianche di evidente stile mediterraneo scavate in parte nella roccia ha un aspetto inconfondibile.
Quando il turista è stanco di sole può trovare ombra al Castello  costruito dai normanni nella seconda metà dell’anno mille ed ancora  chiuso tra le mura del Recinto Baronale.
La parte vecchia dell’abitato, dalle basse case coperte da grigie cupole d’aspetto orientale, è ancora parzialmente cinta da vecchie mura.
 
Sull’estremità della rupe si erge un piccolo Castello  d’origine medioevale e la piccola Parrocchiale, che conserva una Madonna col Bambino, S. Domenica e S. Pietro martire di scuola di Pacecco de  Rosa.
Peschici, come la maggior parte del Gargano, per i turisti vuol dire vacanze e vita di mare.
 
Il centro storico è molto caratteristico, fatto di scale e case che degradano verso il mare con un percorso irregolare.
 
Il paese, ricco di botteghe e negozietti invitano allo shopping e le locande, le pizzerie ed i ristorantini locali,riempiono l’aria con i profumi dei piatti del posto.
A km 1.5 dal paese, sulla statale per Vieste, c’è uno dei più  importanti monumenti del Gargano, l’Abbazia di S. Maria di Calena, dove per lungo tempo ha vissuto una comunità di monaci benedettini.
Caratteristi attrezzi da pesca costiera, tipici del Gargano, sono i Trabucchi (trappole) che rappresentano tutt’oggi uno dei sistemi più utilizzati per la pesca; funzionano anche se il mare è grosso.
 
Questo sistema di pesca tradizionale è costituito da pali di legno  conficcati nelle rocce a sostegno della struttura principale da cui  partono “antenne” in legno a cui sono applicate delle funi che trattengono una grande rete calata in acqua, detta trabocchetto che  cattura il pesce.
 
Queste ingegnose macchine da pesca, (ottimi esempi di bio architettura/ingegneria), si protendono ancora in tutta la loro bellezza sull’azzurro del mare e caratterizzano la costa di Peschici e dell’intero Gargano.

Elia Profeta, il Santo Protettore di Peschici.

Con l’intronizzazione della statua di Sant’Elia  Profeta, 11 luglio, inizia a preparare la sua festa religiosa più  coinvolgente, che si svolgerà nella classica tre giorni del 19  (vigilia), 20 (festa con processione) e 21 luglio.
L’origine del culto di Sant’Elia a Peschici si fa risalire al 970  d.C., quando una colonia slava di Schiavoni si insediò sul territorio  dopo che il duce Sueripolo, per ordine dell’imperatore Ottone I, riuscì a  scacciare i Saraceni dal Gargano. Pare che insieme agli slavi, i  cittadini superstiti di Pesclizia (Peschici) si stabilissero in un  casale nella zona cosiddetta “Canalicchio”, sotto la Rupe di Peschici.
In un opuscolo, curato nel 1915 dall’arciprete Antonio Carnevale e  fatto ristampare (con l’approvazione ecclesiastica di F. Emanuele  Bastardi) il 25 luglio 1968 dall’arciprete di Peschici don Fabrizio  Losito, si accenna ad una suggestiva leggenda. Un nugolo immenso di  cavallette oscurò ad un tratto il sole, distruggendo orti, uliveti,  vigneti, campi; persino gli stessi cittadini non potevano uscire fuori  di casa. Il clero ed i peschiciani, riunitisi in chiesa perché presi  dallo spavento per il minaccioso avvenimento,decisero di indire una  processione per implorare la protezione di Sant’Elia,onde liberasse il  paese da questa calamità. Si rispolverò l’antica statua lignea del  Santo, abbandonata nella cappella della Madonna delle Grazie, e tutti  insieme si avviarono in processione verso il Castello, pregando e  piangendo.
 
Era il mese di luglio e il caldo infuocato del libeccio bruciava il  viso e non consentiva l’inoltrarsi della processione; i partecipanti  decisero di ritirarsi a pregare in chiesa. Al mattino, sulla spiaggia  giaceva «uno strato nero alto circa due palmi di cavallette e i dotti  del paese, nel controllarle, scoprirono che, sulle ali erano incise le  iniziali ‹I.D.› che interpretarono come ‹IRA DEI› (castigo di Dio). Il  Signore aveva voluto punire un popolo avverso alla Chiesa e pertanto, da  quel momento – si legge nell’opuscolo – alla fede si aggiunse una  venerazione profonda per Sant’Elia: divenne unanime il desiderio che il  Profeta fosse elevato a patrono e protettore dl Peschici.
 
L’invasione delle cavallette fu una delle piaghe piùterribili  dell’agricoltura meridionale, un vecchio spauracchio dei contadini. Il  miracolo di Elia fa parte di quella storia pre-borghese della terra,  quando il contadino lottava per le sue esigenze vitali ed era incapace  di abbandonare i propri campi. In economie depresse, sempre al limite  della sussistenza e prive di ogni meccanismo di incentivazione, il nesso  carestia-miseria-epidemia consentiva una sola libertà, dappertutto  analoga: quella del miracolo, che rompeva, almeno per un giorno, il  clima della condanna. Elia opera il miracolo,incidendo sotto le loro ali  il segno della potenza di Jahvé. Siamo sul terreno della religione  vissuta, che appartiene alla storia quotidiana del popolo e affannosa”  dei campi, della penuria, della fame, delle epidemie.
 
Ancora oggi è consuetudine, la mattina dell’11 luglio, data di inizio  della novena che termina il 19 a cui segue il 20 la solenne  processione, porre la statua di Sant’Elia su un trono riccamente  addobbato.Tutti i peschiciani si avvicendano ad onorare il santo e, come  una volta, strofinano un fazzoletto che serve a tergere la fronte, il  viso e il collo al parenti malati (ma anche ai sani) per auspicarne la  guarigione o la preservazione dai mali grazie all’intercessione di  Sant’Elia.
 
Durante la processione, si soleva sistemare i malati davanti alla  porta di casa per ricevere la benedizione del Santo e sperare nella  grazia. Se qualche bambino scampava alla malattia, si confezionavano su  misuraabiti, tipo saio di frate, dai colori giallo e marrone,  riproducenti l’abbigliamento del santo, o si cucivano i cosiddetti  “abitini” (sacchettini di stoffa contenenti immaginette sacre  raffiguranti Sant’Elia) all’interno delle fasciature avvolgenti il corpo  dei neonati.
 
Per ringraziare il santo era usanza donare oggetti di valore. In un  documento datato 12 maggio 1920, il vicario curato Giovanni Attilio  Ronghi sottoscrive per il sindaco Sante della Torre una nota che  comprende gli oggetti d’oro e d’argento in dotazione alla statua di  Sant’Elia. Essi comprendono: 82 anelli, 76 paia di orecchini, 44 tra  lacci e collane, 61 oggetti vari, per un totale di 263 doni.
 
Negli anni che vanno dalla fine dell’Ottocento agli inizidel  Novecento, la festa di Sant’Elia veniva organizzata e preparata da un  anno all’altro e alle spese partecipavano tutti i peschiciani. Scrive  Saverio La Sorsa: «A Peschici, durante l’anno, chiunque fa il pane,  lascia volta per volta al forno un pezzo di pasta e questi pezzi vengono  giorno per giorno uniti insieme, benché di farina eterogenea e ridotti  in panetti, i quali sono venduti ad un prezzo più basso del normale; il  ricavato è destinato alla festa di sant’Elia, che è il patrono del  paese. Per la stessa festa, ognuno che trebbia il grano o frange le  olive, o pigia l’uva, preleva dalla sua produzione un po’di grano, di  olio o di mosto e l’offre al santo».
Negli anni ‘30 del Novecento, il Comune distribuiva alle famiglie più  povere dei buoni individuali per ricevere gratuitamente un pane da 2  Kg.
 
In una nota spese, recuperata nell’archivio comunale e datata 20  luglio 1924, figuravano tra le spese: musica e regalie al maestro (lire  5.185,00); albergo 5 solisti e vitto ed albergo Maestro (lire 281,50);  fuochi pirotecnici lire 2.100,50; fitto illuminazione lire 600,00;  energia elettrica lire 860,00; facchini per illuminazione e fuochi lire  107,00. Il totale delle uscite ammontava a lire 11.109,40. Tra le voci  relative alle entrate, figuravano: ricavato pane a tutto il 31 agosto  compreso lire 161,90; una sottoscrizione di lire 3.505,50; posteggio al  mercato con aumento di pesce e formaggio lire 595,10; aumento vino e  carne lire 1.541,00; posteggio forestieri lire 485,00; offerta durante  la processione lire 165,20; ricavato dell’asta per la portata dei Santi  lire 29,50; ricavato di circa 27 tomoli di grano 8 lire 1.059,65. Il  totale delle entrate ammontava a lire 10.886,70; il resto di lire  222,70, in dare, lo si recuperava con altre tassazioni entro il mese di  settembre.
 
Per la festa di Sant’Elia, tutto il popolo concorreva alle spese e  seppure nella miseria, ogni peschiciano garantiva al meglio il  festeggiamento del santo patrono. La festa durava, come oggi, tre giorni  (19, 20, 21 luglio).
 
Ancora oggi, con il rientro degli emigranti dall’estero, convenuti  apposta per l’occasione, si ripetono di anno in anno dei riti che con  semplice, ma efficace teatralità, esprimono i destini di questa terra  garganica e la sua speranza di prosperità, nel solco di una tradizione  secolare. Elementi culturali ed etnografici, non sempre avvertibili,  concorrono a trasformare queste giornate in eventi religiosi dominati  dalla coralità: Peschici, perduta nel mare dell’esistenza senza  risposta, acquista soprattutto nel culto antico del santo profeta Elia  che libera i suoi poveri, pochissimi abitanti, dalle cavallette, dalla  siccità, dalle malattie e dalle incertezze della vita, la speranza di  salvezza o quanto meno la speranza consolatrice di un futuro migliore. I  modelli della società di massa e consumistici non hanno ancora scalfito  questa realtà, consolidata da secoli: un modo di fare e di essere  collegato, nella sua dimensione più profonda, alla misteriosa ricerca di  sé, della propria identità, del minimo di garanzia vitale.
 
La religiosità popolare, come ci ha ricordato il nostro concittadino  monsignor Domenico D’Ambrosio, è un mondo misterioso ed affascinante, al  quale occorre avvicinarsi con atteggiamento cauto ed interlocutorio, in  punta di piedi; vi si accede più facilmente formulando domande, anziché  dando risposte. Va compresa nelle sue intenzioni, nel suo linguaggio,  nella sua genesi e nelle sue mutazioni storiche. Molti sono i suoi  valori, e occorre saper cogliere le sue dimensioni interiori. È  innegabile la ricchezza interna, tematica, espressiva e d’ispirazione di  questa forma di religiosità. Ma l’atteggiamento nei suoi confronti non  può essere basato su approcci rudi, interpretazioni semplificate,  accettazioni acritiche, spiantamenti violenti e immotivati. La religione  in cui siamo stati educati alla fede merita da noi il massimo rispetto,  per quello che ci ha dato e per quello che ancora può darci, ma  soprattutto perché costituisce la saggezza del nostro popolo: è la sua  matrice culturale.
 
Prof. ssa Teresa Maria Rauzino